Cinema ritrovato. Il sospetto, di Francesco Maselli, 1975
Tanto cinema politico del passato soffre oggi del tempo trascorso da eventi forse irripetibili. Appare inevitabilmente datato e ideologico. Se pensiamo a Giù la testa o a San Michele aveva un gallo, noteremmo subito questa disconnessione con gli interessi del nostro tempo. Un destino che segna ancor di più Il sospetto di Francesco Maselli, un film – nientemeno – sulla “ragion di partito”: cosa può esserci di più distante?
Nell’Italia del ’34 un militante comunista “critico” (Emilio, interpretato da Gian Maria Volonté) viene prima allontanato dal partito, poi – dopo un periodo di rifugio in Francia – viene riammesso e usato per scovare l’infiltrato che si annida tra le fila del centro politico di Torino.
Né il partito né Emilio hanno la sicurezza che questo infiltrato ci sia davvero, ma per scoprirlo non possono far altro che sacrificare un proprio militante – Emilio – affidandogli il compito di incontrarsi con gli altri membri dirigenti piemontesi e, in sostanza, scoprire il traditore facendosi arrestare.
Emilio vive un molteplice travaglio interiore e politico. Siamo nella fase in cui anche in Italia il partito procederà a riorientare la propria strategia politica: dal “socialfascismo” al fronte popolare in funzione antifascista. Emilio condivide la svolta, ma ne critica le modalità verticistiche, il mancato dibattito: prima i socialisti erano il nemico; oggi sono i compagni con cui lottare. Va bene, dice e si dice, ma come è maturata questa decisione? Perché non è stata coinvolta la base? Nei centri operai, e soprattutto a Torino, i compagni chiedono, vogliono capire. La trama pedagogica che innerva il film procede, attraverso la compagna Teresa (modellata sulla figura di Teresa Noce), a spiegare le ragioni della compartimentazione, della difesa del centro direttivo, tanto italiano quanto sovietico. I “compiti del militante clandestino” vengono ricordati con eccessiva solerzia, ed è la parte meno convincente del film.
Nonostante i dubbi, tanto personali quanto del partito, alla fine Emilio viene riammesso. Eppure il sacrificio richiestogli, e cioè farsi arrestare per smascherare l’infiltrato, è grande. Venti, forse trenta anni di galera è il prezzo di questa missione. Emilio acconsente. Torino è di importanza strategica, per via della concentrazione operaia in Fiat, e il centro del partito non può permettersi di perderlo a causa delle infiltrazioni dell’Ovra. Non c’è “lotta interiore” in Emilio, solo consapevolezza del carico affidatogli dal partito e dal destino, da sopportare con gravità. Non c’è neanche gratificazione: Emilio non è contento, è convinto. Si deve fare, perché è giusto che sia così. È un uomo con i suoi tormenti, ma anche un militante con i suoi doveri: chi prevarrà?
Il film non è un capolavoro, ma un antidoto. Un vaccino contro le retoriche edificanti ed imbolsite della lotta clandestina, della vita di partito e sulle sue ragioni superiori. Non per smentirle, ma per approssimarsi alla realtà delle cose.
La strumentalità del rapporto tra militante e partito è raccontata con quella dose “inopportuna” di realismo che, ovviamente, non poteva essere accettata dal Pci, che infatti lo criticò. Una critica dura, con in prima fila, guarda caso, Ingrao.
I “panni sporchi” dovevano essere lavati in casa. Vecchio ritornello. Tutto sta nel capire perché una vicenda simile veniva giudicata come un “panno sporco”. La lotta rivoluzionaria, clandestina, comporta asprezze difficili da decifrare in tempi di quiete. Comporta, tra le altre cose, una ragione di partito superiore agli interessi dei singoli militanti. È giusto? Complicato rispondere, di questi tempi. In una scena del film, un commissario politico del centro estero ricorda a Emilio: il primo dovere di ogni militante è di non farsi catturare. Questa è la regola per salvaguardare l’organizzazione. Ma se la cattura di un militante consente all’organizzazione di sopravvivere? L’eccezione conferma la regola, a patto che di questa eccezione si possa servire. Rigidità organizzativa ed eccezionalità convivono quotidianamente nel partito rivoluzionario. Emilio lo capisce e non se ne rammarica.
Alla fine, davanti al funzionario dell’Ovra che gli ripete che “il partito ti ha usato”, invitandolo a tradire, Emilio ripete ostinatamente: “sono un militante del partito comunista italiano, non altro da aggiungere”. E di fronte alle insistenze, alla fine, “cede”, ma in modo inaspettato: “ma questo io l’ho sempre saputo. Eravamo d’accordo”. Il rapporto è di disciplina, senza retoriche estetizzanti ed “eroizzanti”. Volonté, in questo, è come sempre molto bravo. È il partito a fare la parte del “cattivo” in questo caso, coi suoi “grigi burocrati” e le sue logiche perverse. Un cattivo necessario però. Necessario e, ancora peggio, consapevole. Un manovratore di destini altrui. Brutta storia, eppure inevitabile.
Alla fine è ciò che restituisce un film “impegnato” come questo: l’intreccio tra una vicenda necessaria, ma non per questo meno dura da sopportare, e l’umanità “tradita” o, per meglio dire: sospesa.
Non potemmo essere gentili, ci ricorda Brecht. Solo in tal senso è possibile perdonare la disumanità della lotta clandestina.